Guillermo del Toro voleva realizzare un film perfetto, straordinario, che lasciasse il segno. E così è stato.
Il suo modo così meticoloso di costruire immagini, personaggi, scene, è impressionante.
Lui è la capacità assai rara di rapirti, di portarti dentro la storia, dentro l'architettura dei suoi film, che si reggono su trame che racchiudono quasi sempre una morale, che sono fiabe che commuovono ma che lasciano a bocca aperta per la sua incredibile capacità di sorprendere.
Così come fu con Pinocchio, sono i rapporti “padre-figlio” al centro della narrazione. Rapporti nati da qualcosa di incompiuto, mentre si cerca di trovare la soluzione a qualcosa che manca. E poi c'è quella rarità che lui ha saputo raccontare: ossia due diversi punti di vista, quelli di due personalità, di due individualità unite però con un filo invisibile che travalica la morte, che resta immortale, malgrado la morte.
La costruzione (non creazione) di una creatura, generata dalla capacità di sfidare la scienza, ma anche la morale. Un mostro che costringe a scuotere le coscienze, a mettere in discussione la nostra umanità, a porci delle domande difficilissime sulle contraddizioni circa il bene ed il male.
Del Toro pone l’accento su come si possa essere dei prodigi e allo stesso tempo estremamente maldestri. Come quando un figlio trova il coraggio di dirci dove abbiamo sbagliato, o forse dovremmo dire fallito. Quel doppio punto di vista, quel racconto che spetta ad entrami i protagonisti, quel trovare risposte a domande sottili, profonde, che spesso temiamo. Perché se crediamo di non avere dubbi nel rispondere alla domanda se a vincere debba essere il bene o il male, avremo un dubbio enorme nell’individuale dove risieda il bene e dove il male.
È un film madido di significati. Parla sì di uno scienziato che riesce a creare la vita, ma parla anche e tanto di rapporti, di solitudine, di amore, disincanto, paure. Non ci domandiamo mai a chi apparteniamo per davvero. Si pensa di appartenere solo a sé stessi, ma Del Toro ci consegna una lettura differente. Senza spoilerare – anche se la storia è nota e il regista la rispetta quasi appieno – viene chiesto allo spettatore di domandarsi a chi o a cosa apparteniamo ed è quell’appartenenza che ci guida, lungo la linea sottile tra bene e male, immersi nella diatriba tra l’essere puniti e l’essere assolti.
È la storia di un mostro, che prende vita in uno spazio che da troppo piccolo diventa troppo grande per il suo essere ingombrante, incompreso, immortale. È lo spazio che con minuzia il regista e sceneggiatore costruisce nei minimi dettagli, che mette a disposizione della storia, che alimenta di suggestione e di quella bellezza che nasce dalle domande, dall’interrogarsi circa chi si sia realmente e quale sia il proprio posto nel mondo. Ma come nella vita vera, le risposte non sono mai definitive e Del Toro non ha questa presunzione, malgrado la sua immensa bravura nell’arte cinematografica.
C’è una parte di mostruosità insita nell’essere umano; incontriamo mostri ogni giorno, ma li ignoriamo perché in essi riconosciamo qualcosa che ci appartiene, nei cui panni viviamo senza condannarci mai troppo a lungo o troppo a fondo.
Come tutti i film di Del Toro, c’è del metafisico, del gotico ma anche qualcosa di tremendamente realistico. Il tutto mentre si resta fedeli ad una storia che racchiude in sé una morale che questo film ti mette dentro il cuore non solo davanti agli occhi.
Eppure la rappresentazione del male risulta cinematograficamente più facile perché più credibile, poiché è più vicina all’essere umano, al realistico, malgrado sia una storia di fanta-scienza.
Ogni personaggio del film ha qualcosa di magico, di incredibile. Gli attori sono incredibili, intuitivi, accattivanti, al posto giusto, con la giusta intensità. Victor, Elisabeth, il “mostro” di Frankestein, hanno tutti un doloro profondo, una mancanza intoccabile, un ruolo nella vita dell’altro che scivola travando spazio tra il dolore e la verità. Questione di legami, che possono essere fisici ma anche emotivi, comprensibili ed incomprensibili, meravigliosi e mortali.
Rispetto al libro originale, Guillermo Del Toro fa nascere e da vita a nuovi personaggi, come William, il fratello di Victor. Gli da vita ma anche un ruolo non marginale. Rende gli antagonisti vittime e gli eroi vincibili. Ha soffiato in ognuno di loro un certo spirito di immortalità, malgrado siano spietati, incorreggibili e mortali, rendendo tutta la pellicola assolutamente commovente.
Questo film è a tutti gli effetti una fiaba, con il male che trasmigra, che non si mostra per come è veramente fino a quando non si scoprono i sentimenti, che mettono tutto di nuovo in discussione e ridisegnano le sorti della trama e della morale, come ogni fiaba che si rispetti.
Scenografia, fotografia, costumi e trucco sono le chiave con le quali Del Toro apre la porta della magnificenza del cinema, con una pellicola impeccabile dove colori, luci e dettagli si ispirano a molto altro, rispetto al soggetto. Un lavoro corale, con direttori della fotografia, make up artist, costumisti, che con una coordinazione inimmaginaabile, diventano fautori di un prodotto straordinario.
I costumi sono parte integrante del set, la fotografia è la scenografia. E il regista è il direttore d’orchestra che dosa i “piano” e i “forte”, i “di più” e “di meno”. Perché questo è un film nel quale il climax è dentro ogni ciack, è dentro quel pathos che ti mette in connessione con il “mostro” e tutti i suoi progressi, che alla fine saranno la sua condanna.
Del Toro è uno di quei rari registi che riesce a riprodurre un intero mondo, in un film, una storia che accompagna, stupisce, emoziona, commuove, mettendo tutto se stesso, affinché il suo film possa essere una esperienza unica per chi lo fa e per chi lo guarda. Ogni professionalità coinvolta nel cinema, con lui è utilizzata in maniera assoluta, direi quasi fantasmagorica.
Anche i colori, nel Frankestein di Del Toro hanno un loro ruolo, sanno essere legame, sottile, immarcescibile.
È poi c’è il “mostro” di Frankestein, che tutto è fuorché un mostro. Ha le fattezze di chi ha abitato tante vite e tanti corpi, di chi ha raccolto una imprescrutabile dedizione per la vita, tanto da rimanerne per sempre imprigionato, incarnando però tutti quei sentimenti che l’essere umano concepito, e non creato, spesso rinnega. È il suo modo di vedere le cose, che commuove; vede “attraverso”, mette a fuoco tutto ciò che non si vede se prima non lo senti. E Del Toro è stato in grado di rendere reale tutto questo “sentire”.
Anche le violenza è musicale, nel film. È una sorta di danza, che ogni volta è crudele rinascita.
Così la tecnologia, da sempre a disposizione del cinema di Del Toro, si sposa perfettamente con la storicità della storia narrata, creando degli effetti speciali realistici che stupiscono.
Possiamo dire che potenza e profondità hanno avuto il giusto spazio per prendere respiro. Dal campo lunghissimo al primo piano con maestria.
Anche le colonne sonore sono il tassello perfetto di un puzzle che mostra l’anima del film, amplificandone le emozioni.
La creatura di Frankestein incarna la tenerezza del perdono, quell'atto di generosità e clemenza che squarcia il limite umano, concesso da chi ha su di sé la condanna dell'immortalità.

