Di sequito la terza ed ultima parte del racconto a cura di Alfonso CIvilità
Il signor Ruud era un vecchio belga che viveva a Boavista ormai da parecchi anni. Atila mi aveva parlato di lui con un tono di rispetto, quasi di timore. Si sapeva poco di lui se non che era arrivato sull’isola agli inizi degli anni novanta proveniente dal vecchio Congo Belga. Si diceva che lì facesse il soldato mercenario e lui non si impegnava a smentire queste dicerie.
Anche lui viveva il mare con una bella barca da pesca attrezzata di tutto punto. Non viveva di quello, non ne aveva bisogno. Accettava al massimo un rimborso spese per il carburante della barca quando qualche turista si presentava con la richiesta di una battuta di pesca al marlin. Il suo cabinato da 9/10 mt era attrezzato con ogni tipo di canna, mulinello o quanto necessario per la pesca d’altura. Il marlin è una brutta bestia da pescare e predilige solo esche vive quindi, in battuta, si cercavano prima queste.
Fu così che una domenica mattina mi presentai al porto armato solo della mia totale ignoranza sulla pesca d’altura e attraverso una improvvisata passerella di legno misi piede nell’imbarcazione. Il viso cotto dal sole e solcato da rughe che sembrava ripetessero l’andatura delle onde del mare, Ruud mi accolse con qualcosa che somigliava a un grugnito. Non capivo ancora bene il portoghese quindi mi avventurai con il mio francese scolastico in una discussione con il semplice scopo di comprendere le prime nozioni indispensabili per trascorrere una giornata diversa dalle altre. Avevo fatto immersioni continue per una settimana e l’azoto che comunque si accumulava nel mio sangue avrebbe potuto crearmi qualche problema quindi decisi di sospenderle per qualche breve tempo.
Uscimmo lentamente e ci avviammo per circumnavigare l’isolotto di Sal Rey che, come una barriera naturale proteggeva l’ingresso del porto, per poi dirigerci in mare aperto. Ci allontanammo per un paio di miglia mantenendo comunque la terra a vista. Le onde lunghe dell’oceano ci dondolavano dolcemente mentre calava una piccola rete da trascinare in ampi cerchi concentrici. Trascorsa un’ora azionò il verricello per tirare a bordo il raccolto della pesca. Non era granché: pesci pappagallo, qualche squaletto pinna nera da 30/40 cm ed altri pesci per me sconosciuti che finirono tutti insieme all’interno di una grossa tinozza di plastica.
Con estrema perizia scelse gli ami grossi quanto la mia mano e con mano esperta li conficcò sulla massa carnosa sul dorso dell’esca ancora viva. Eravamo già arrivati a mezzogiorno quando Ruud calò le cinque o sei canne, tagliò a grossi pezzi gli squali pescati poco prima e li gettò sanguinolenti fuori bordo per la pasturazione; dopodiché ci sedemmo sulle panche di legno ad aspettare mentre la barca procedeva avanti e indietro alla minima velocità.
Mi parlò delle foreste equatoriali, delle sue bellezze e dei sui pericoli; mi raccontò tanti aneddoti occorsi nei trent’anni trascorsi in quel lontano paese. Non mi guardava quasi mai negli occhi e questo mi metteva a disagio. Il suo sguardo era sempre rivolto all’orizzonte. Una sola volta e solo per un istante mi fissò e mi disse: “Les animaux en Afrique sont beaux et dangereux, mai pas come les umains”.
Continuò a parlarmi della sua famiglia; aveva due figli che facevano i professionisti in Belgio, della ex moglie ormai deceduta che non aveva condiviso con lui la scelta di vita a Capo Verde.
Ogni tanto guardavamo le canne ma … nulla; quel giorno i marlin avevano scelto altri lidi. A me era rimasto il ricordo di una giornata in mare con un uomo, ormai vecchio, che continuava a tenere dentro di se ricordi, forse, indicibili. Non posi nessuna domanda, non avanzai alcuna richiesta. Quando tornammo al molo a mani vuote mi limitai a stringergli la mano forte e callosa. “Bonne vie monsieur le directeur”. “ A vous” risposi, mi avviai verso la moto appoggiata al retro del muro del bar, la accesi e mi voltai cercando il suo sguardo. Alzai la mano in segno di saluto e lui rispose spostando leggermente il basco blu che teneva sempre in testa.
Era fine luglio quando completai il corso per il conseguimento del brevetto avanzato; ormai il mio incarico volgeva alla fine e quindi iniziavo i preparativi per il ritorno a casa. Erano trascorsi sette mesi lunghissimi e la lontananza dalla mia famiglia si faceva sentire ogni giorno di più nonostante i diversivi che mi inventavo per non pensarci.
Mercoledì mattina il piccolo bimotore mi avrebbe portato all’aeroporto internazionale di SAL e da li con un volo intercontinentale sarei arrivato a Malpensa.
Il sabato precedente Atila e Rosy mi proposero una ultima immersione da Shark-Bay, un posto che era tutto un programma. “E’ facile incontrare gli squali, di solito quelle acque sono pattugliate dai Tigre, più piccoli degli squali bianchi ma statisticamente un più pericolosi”. L’incoscienza o la consapevolezza di una occasione unica o non saprei dire cosa mi fecero accettare la proposta.
Shark-bay era sul lato opposto a Shaws cioè almeno tre ore e mezza di navigazione quindi decidemmo di arrivare via terra lungo la pista passando da Bofareira e da lì alla baia; La domenica mattina di buon’ora aiutai i miei amici a caricare il gommone sul carrello che agganciammo al fuori strada e dopo un’ora di arrivammo a destinazione. Varammo il gommone direttamente in acqua, controllammo minuziosamente tutta l’attrezzatura e ci avviammo verso la punta ovest della baia.
Rosy sarebbe rimasta a bordo, io e Atila avremmo effettuato l’immersione. Calammo un cavo guida assicurato alla boa rossa e dopo un’ultima ispezione delle singole dotazioni ci calammo in acqua. Le onde erano alte e quindi il gommone non poteva ancorarsi costringendo Rosy a manovrarlo con il motore a distanza di sicurezza dalla boa.
Scendemmo uno dietro l’altro seguendo la fune. Se pur discreta la visibilità non consentiva di vedere il fondo che in quel punto era sabbioso. Atila apriva la discesa, io lo seguivo un paio di metri più indietro.
Ad un certo momento mi fece segno di fermarmi aprendo rapidamente la mano destra e, subito dopo, il segnale della presenza dello squalo. Stranamente rimasi calmo e seguii con lo sguardo il braccio teso in basso del mio compagno. Perfettamente mimetizzato nelle onde della sabbia sottostante uno squalo tigre si spostava sotto di noi alla distanza di cinque o sei metri. Aveva una andatura tranquilla e dopo pochi istanti sparì alla nostra vista.
Arrivati al fondo ci dirigemmo verso nord ovest per circa cinquanta metri dove si stagliava la scogliera perpendicolare al fondo. La percorremmo tenendola radente alla fianco destro; in quel momento ero ammaliato dallo spettacolo che mi si parava davanti e non mi curavo di ciò che succedeva intorno a me. Coralli splendidi, anemoni che si muovevano al ritmo costante della marea. Una murena coloratissima faceva capolino dalla sua tana.
Un movimento del braccio di Atila attirò la mia attenzione; di fronte a lui si apriva una grotta ad arco.
Il fondo sabbioso e la volta scavata dalle onde del mare; si intravedeva una leggera luce filtrante alla fine del cunicolo che attraversammo lentamente. Ero un ottimo allievo e seguivo il mio istruttore con diligenza. Mi tornò in mente il principale avvertimento che ripetevano entrambi prima dell’immersione. Se dovessimo incontrare uno squalo l’unica cosa da fare è mantenere la calma più assoluta. Mantenere il ritmo della respirazione per evitare inopportuni consumi di aria e seguire le istruzioni della guida.
Lui era arrivato già all’uscita della grotta e, prima di portarsi fuori, controllò l’esterno. Ancora una volta il segnale di attenzione, squalo. Mi avvicinai a lui ed uscii lentamente rasentando il fondo a circa 18 metri di profondità. Mi fece segno di guardare verso l’alto e lì lo vidi in tutta la sua orrida maestà. Era sopra di noi, a circa 4 metri, e si muoveva lentamente allontanandosi dalla scogliera. Le punte delle pinne pettorali erano sicuramente più larghe delle mie braccia estese, la sua bocca leggermente aperta mostrava chiaramente le file di denti acuminati come rasoi e la lunghezza era per me paragonabile ad un sommergibile. Si allontanò fino a quando lo perdemmo di vista. Eravamo giù da oltre 30 minuti e quindi era necessario iniziare la risalita verso il gommone. Ripercorremmo il tratto di fondale fino alla fune che Atila tirò con violenti strattoni verso il fondo per tre volte. Calcolando la profondità ed il tempo di immersione era consigliabile procedere a due soste intermedie. Salimmo lentamente fino a 12 metri di profondità dove ci saremmo fermati per cinque minuti. Continuavamo sempre a guardarci intorno fino a quando stavolta lo vidi arrivare io. Era risalito alla nostra stessa quota e si dirigeva lentamente verso di noi. Arrivato ad una distanza di circa cinque metri voltò verso la mia destra iniziando a girarci attorno. Atila si mise fra me e l’animale prendendomi il braccio e segnalandomi di mantenere la calma.
“Facile a dirsi” Pensai. Uno sguardo all’orologio, un altro al manometro e un occhio alla bestia che continuava imperterrita a girarci attorno. Trascorsi i cinque minuti iniziammo a salire in tandem fino ai sei metri di profondità. Sempre seguiti a distanza dall’animale. Vedevamo solo il suo occhio destro perché continuava a girarci in tondo in senso orario fissandoci col suo sguardo ipnotico.
Improvvisamente con un colpo di coda venne dritto verso di noi. Atila, sempre fra me e lui, allungò il braccio facendo galleggiare nell’acqua alcune pastiglie che iniziarono a diffondere intorno una nuvola verdastra che diede parecchio fastidio alla bestia. Ci provò ancora una volta ad avvicinarsi e ancora una volta fu respinto dalle miracolose pastiglie dell’istruttore. Dopo qualche istante che a me è sembrato una eternità mi fece segno di salire in superficie. Rosy, guidata dalle bolle dei nostri respiratori, si era avvicinata a distanza utile e messo in folle il grosso motore Honda. La paura o il terrore mi fecero balzare all’interno del gommone senza neanche usare la scaletta. Avevo tralasciato tutte le istruzioni: togliere le pinne, il jaket con le bombole e solo dopo risalire sul gommone. Atila arrivò con calma dopo qualche momento. Lui seguì alla lettera tutti i processi ed infine salì sul gommone.
Lo accolsi con una risata isterica e liberatoria. “La prima volta è sempre così ma non succede niente; era solamente curioso”.
La sera ci ritrovammo nella piazza del comune. Ero euforico, estasiato e meravigliato. Attorno a noi alcuni ragazzi danzavano al ritmo ossessionante dei tamburi. Era un mondo contraddittorio; gente scalza con i telefonini in mano. La povertà era tangibile eppure sprizzavano gioia da tutti i pori.
A volte sollecitavo i miei operai per accelerare i lavori ma, niente. Era tutto vano. Un’altra volta un capetto mi disse: “Il lavoro non mi serve, se ho fame vado nel mare, pesco e mangio o vado nel deserto ammazzo una capra e mangio. Io ho tutto e tu?”
Continuavo a rimuginare su questa affermazione quando il giovedì successivo atterrai a Malpensa. Lei era li ad aspettarmi, i bambini erano a scuola e li avrei visti al loro rientro. Avevo tante storie da raccontare, un pezzetto di vita vissuta lontano da loro. Il pianto di gioia di Alessandra nel vedermi fu il più meraviglioso dei benvenuti.
Non sono mai più tornato all’isola di sottovento e non so se ne avrò ancora la possibilità di farlo ma l’ho portata con me, nel cuore.
