[IL RACCONTO SARÀ SUDDIVISO IN 3 APPUNTAMENTI SETTIMANALI. PROSSIMO LUNEDÌ LA TERZA ED ULTIMA PARTE]
Il cantiere si trovava lungo la spiaggia di Shawes, a circa 15 km dalla palazzina che fungeva da ufficio/residenza, e prima di recarmi a lavoro avevo preso l’abitudine di fermarmi al molo del piccolo porticciolo per un caffè. Pur avendo a disposizione un‘auto di tutto rispetto preferivo andare in giro con la fantastica Honda 750 realizzata appositamente per le lunghe attraversate del deserto.
Stranamente quella mattina avevo fatto più tardi del solito e quindi bevvi in fretta l’unico caffè decente dell’isola, inforcai la moto e con un moto di stizza mi accorsi di avere la gomma sgonfia. Decisi di tornare immediatamente in sede per prendere l’auto, e per fare più presto mi infilai in una delle due strade parallele contromano senza accorgermi dell’arrivo di un corteo di auto della polizia che precedevano un’altra auto con tanto di vessillo sui parafanghi anteriori. Si svolse tutto in un battito di ciglia; la prima macchina mi venne incontro buttandomi per terra, i due poliziotti scesero immediatamente dall’auto scoperta e schiacciandomi per terra con tutto il loro peso, mi ammanettarono. In men che non si dica mi ritrovai al Commissariato seduto su una panca di legno guardato a vista dal buon Ramon, un poliziotto che avevo avuto modo di incontrare in diverse occasioni.
“Ma che diavolo combini??? Ti butti sotto la macchina del Presidente???”
Non riuscivo ancora a capire, e ci misi un po’ per realizzare ciò che era successo. Una catena di combinazioni sfavorevoli, una stupida leggerezza ed eccomi qui … arrestato!
“Stai tranquillo” disse Ramon “ qui ti conosciamo tutti. Appena lui riparte puoi tornare al tuo lavoro”. Ramon adorava la scala 40 e trascorremmo la mattinata a giocare a carte sulla scrivania del Commissario fino a quando, questi, fece capolino dall’ingresso invitandomi ad uscire. Niente verbali, niente processi, niente scuse; era tutto a posto, siamo in Africa, non servono bolli e avvocati. Mancava solo un boccale di birra fredda che sorseggiamo al bar del molo quando mi riaccompagnarono per riprendere la mia adorata moto.
Come tutto l’emisfero nord del pianeta, a fine gennaio Boavista era in pieno inverno. La temperatura oscillava fra i 25 e i 27 gradi diurni con un leggero calo durante la notte.
Tutto bello tranne il vento. Prima di sentirlo sul viso lo vedevi arrivare preceduto da una nuvola giallastra di sabbia; raffiche di 50/70 kmh cariche di sabbia che ti sferzava la pelle, che ricopriva qualsiasi cosa, animale o persona.
In quelle occasioni un berretto stretto mi proteggeva i capelli, i miei vecchi occhiali da sole gli occhi e una generosa bandana il naso, la bocca ed il collo. Così conciato me ne andavo in giro nel deserto per arrivare in cantiere. Durava tre giorni la tempesta e dopo la prima, la seconda e la terza ci feci l’abitudine.
Spinto dai miei amici Atila e Rosy decisi di conseguire il brevetto PADFI Open, quello delle immersioni che fanno i bambini per capirci. Mi unii ai corsi che settimanalmente offrivano ai turisti che io avevo battezzato “turisti da sabato a sabato”. Il corso durava esattamente 5 giorni e nell’ultimo si sosteneva un esamino che abilitava l’esaminando alle immersioni dilettantistiche; profondità massima 16 metri (mai raggiunti in quelle occasioni). Ci ritrovammo così in compagnia di giovani e un po meno giovani di diverse nazionalità uniti dalla passione per il mare. Finito il lavoro mi precipitavo ai containers perché anche di inverno avevamo ancora due ore buone di luce. Si saltava sul gommone, ci si allontanava di poco dalla costa e giù a godere delle meraviglie di quei fondali. Il fondo marino degradava lentamente per un paio di chilometri prima di sprofondare negli abissi dell’oceano ed il paesaggio che ci circondava era molto vario. Si passava dai fondali sabbiosi che nascondevano antichi naufragi a quelli rocciosi pullulanti di vita. Pesci di qualsiasi forma, dimensione e colore. Coralli rossi e madreperlacei. Scogliere che sembravano scolpite da artisti secenteschi. Avevo l’impressione di ritrovarmi all’interno di quei documentari di David Attemborough e tutto ciò mi faceva perdere l’idea del tempo. Solo il richiamo di Atila o Rosy mi distraevano da quella estasi e allora, seguendo le rigide procedure di sicurezza, si risaliva sul gommone in tempo per assistere al più veloce dei tramonti.
Una sera, scendendo dal gommone carico dell’attrezzatura da riporre nei container, vidi entrare nel porticciolo un piccolo vascello nero. Da Shaws, distante circa 1 chilometro, i due alberi si stagliavano nettamente sull’orizzonte infuocato: “Ohh finalmente” disse Rosy, “Beatrice è tornata!”
Scoprii con piacere che Beatrice (non ricordo più il cognome) era una biologa marina sulla sessantina, svizzera del Canton Ticino. Pur parlando perfettamente l’italiano ci teneva tantissimo a sottolineare la sua origine anche se la sua barca batteva bandiera Capoverdiana.
Viveva sull’isola finanziandosi con il noleggio del vascello ai turisti in combinazione con Atila e Rosy. Purtroppo gli impegni di lavoro mi impedivano una frequenza più assidua ma iniziai a frequentare il vascello il sabato e la domenica. Pagavo - e non poco - per quei giri dell’isola ma ne valeva la pena. Si partiva all’alba in dodici o tredici passeggeri verso due destinazioni: o direzione spiaggia di Santa Monica a sud o verso le coste alte e rocciose di Santa Maria verso nord. Ci accompagnava un ragazzotto di colore che fungeva da marinaio, mezzo marinaio, sguattero e aiuto cuoco. Un gran bravo ragazzo con il quale iniziavo a scambiare qualche parola in portoghese.
Un sabato mattina mi presentai al molo per l’imbarco e vidi Beatrice ai piedi della scaletta del vascello con una espressione preoccupata; il ragazzo non si era presentato e lei aveva bisogno di qualcuno per le operazioni di disormeggio e governo del natante. Non ci pensai su più di tanto e mi offrii volontario. Quel giorno volse la prua a nord, verso Ponta bay, tre ore di navigazione a motore per raggiungere la punta più impervia dell’isola.
“Se siamo fortunati vedrai qualcosa che potrai raccontare ai tuoi nipoti” mi disse Beatrice. Mi cedette il timone e, preso un grosso cannocchiale, cominciò a scrutare l’oceano davanti a noi. Eravamo tutti incuriositi da tale atteggiamento anche perché si ostinava a tenerci all’oscuro delle sue intenzioni.
Dopo diversi minuti mi disse di ridurre la velocità e dirigermi verso dritta, lentamente. L’oceano era calmissimo quella mattina e questo fece si che notassi in lontananza alcuni spruzzi che si levavano verso il cielo.
Beatrice era agitatissima e raggiante :“Le vedete anche voi?” Allora capii. Avevamo davanti un gruppo di balene. Prese in mano il timone e pose la barra tutta a manca in modo da tenersi lontana circa 300 metri da quell’ammasso di pinne, code e schiuma di mare e mise il vecchio diesel al minimo. Riprese ancora il binocolo e continuò a fissarle. I nostri compagni di crociera si erano appoggiati alle murate facendo inclinare leggermente l’imbarcazione. Ci pensai io a ridistribuire il peso. Lei spiegava quello che vedeva; disse che si trattava di megattere in viaggio verso l’artico dove avrebbero dato alla luce i piccoli.
Le acque interne relativamente calme dell’arcipelago di Capo Verde favorivano il passaggio di questi maestosi mammiferi e lei, Beatrice, era venuta fin lì per questo. Io intanto, rapito ed estasiato, cercavo intorno a me David Attemborough […]
To be continued …
