Il buongiorno 

della Stammelluti 


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L’ISOLA SOTTOVENTO – Prima parte

04/08/2025 09:35

Alfonso Civiltà

Dal mondo, cultura, letteratura, isola sottovento , capo verde, oceano atlantico ,

L’ISOLA SOTTOVENTO – Prima parte

[IL RACCONTO SARÀ SUDDIVISO IN 3 APPUNTAMENTI SETTIMANALI. PROSSIMO LUNEDÌ LA SECONDA PARTE]

[IL RACCONTO SARÀ SUDDIVISO IN 3 APPUNTAMENTI SETTIMANALI. PROSSIMO LUNEDÌ LA SECONDA PARTE]


L’offerta arrivò inaspettata nel gennaio del 2003 e  in famiglia discutemmo per diversi giorni prima che  accettassi  quell’incarico  a quattromilacinquecento chilometri da casa.
La chiamavano l’isola sottovento Boavista, seicento chilometri quadrati di roccia vulcanica ricoperta di sabbia del Sahara perduta nell’oceano Atlantico fra il Senegal ed il Brasile, in compagnia di altre 9 Isole che, tutte insieme, chiamavano Repubblica di Cabo Verde.
L’autista che era arrivato per portarmi a Malpensa aspettava in strada quando mi chinai ad abbracciare i ragazzi che dormivano nelle loro camere; abbracciai mia moglie e scesi portandomi dietro la pesante valigia; sei mesi erano tanti e non sarei tornato prima.
Arrivai a SAL, una delle dieci isole che vantava a quei tempi l’unico aeroporto internazionale, nel primo pomeriggio; due ore di sosta nel piccolo terminal e subito dopo, a bordo di un minuscolo bimotore, atterrammo nel piccolo aeroporto di Rabil.
Il comandante – steward – facchino dell’aereo, buttò per terra la mia valigia che raccolsi  rivolgendogli uno sguardo stizzito. “Cavolo che modi, manco se fossimo in Africa!
Di fronte a me un paio di motocarri trasformati in taxi e una donna con un foglio in mano con su scritto il mio nome. Mi avvicinai e lei mi accolse con un sorriso; non poteva sbagliarsi, ero l’unico bianco sceso da quell’aereo. Parlava bene l’italiano e nel tragitto fra l’aereoporto e Sal Rey mi aggiornò sulla mia sistemazione e sugli impegni dei giorni a venire. Mi guardavo intorno facendo fatica a sentirla perché il rumore della Land Rover copriva la sua voce. Anche se era il tardo pomeriggio la calura del deserto intorno a noi si faceva sentire.
Fermò l’auto davanti un fabbricato dallo stile europeo, anzi italiano, anzi bresciano. Un fabbricato fuori dal contesto circostante, costituito da piccole casupole color sabbia con i tetti in lamiera. Al piano terra era stato predisposto un ufficio che per il periodo assegnato avrei diretto, al piano superiore tre alloggi a disposizione del personale italiano.
L’indomani, Marina, la segretaria tuttofare dell’impresa, mi fece conoscere il Sindaco, il Commissario di Polizia e un paio di dignitari con i quali avrei avuto a che fare nei mesi successivi. La costruzione di un villaggio turistico in  pieno oceano mi stuzzicava quindi mi misi subito a lavoro. Mi fu assegnato l’ufficio, l’auto che guidava la segretaria e una bellissima moto da fuori strada indispensabile, a loro dire, per muoversi sulle piste che attraversavano l’isola. 
Avevo notato, durante la fase di avvicinamento del mio aereo, una spiaggia meravigliosa che si prolungava senza soluzione di continuità per diversi chilometri. Il bianco della sabbia si confondeva con la schiuma delle onde che si infrangevano su di essa e subito dopo, verso l’oceano, una sottilissima striscia d’acqua smeraldina. Poi il blu più profondo. 
Avrei chiesto indicazioni per raggiungere quel posto.
Il lavoro mi impegnava tantissimo al mattino; per me era tutto nuovo. Collaboratori, impiegati, operai, modi di fare che facevo fatica a comprendere. 
Geometra, qui siamo a Capo Verde, non in Italia” continuava a dirmi Marina, la segretaria. “Da queste parti ci sono abitudini, usanze e costumi che nulla hanno a che fare con i vostri modi di fare". Effettivamente visitare un posto per turismo è una cosa, viverlo è tutt’altro.
Presi un pò alla volta l’abitudine di fare delle lunghe passeggiate in riva all’oceano. Il rumore della risacca mi faceva stare bene, mi distraeva dalla malinconia di casa. Il buon Gianfranco Iannuzzo l’avrebbe chiamato “allammicu”. Fu così che una sera nel tratto di spiaggia fra Sal Rey e Shaws notai due container su una duna che si affacciava verso la spiaggia. Due figure stavano sedute su poltroncine di tela osservando il mare e quel tizio che li guardava con una certa insistenza. La ragazza, abbronzatissima, mi sorrise da lontano “ Tu sei Alfonso Civiltà il nuovo direttore della G.B. Invest?” La guardai sorpreso e ricambiai il sorriso. “Il mondo è piccolo” risposi. “Tu chi sei?” 
Io sono Rosy e lui è mio marito Atila, vuoi qualcosa da bere?” Lei era una bergamasca che, dopo una vita piatta passata in banca, ha conosciuto il suo Atila, un ragazzone brasiliano istruttore PADI. Dopo poco tempo  ha mollato il lavoro in Italia e si è trasferita a Boavista per vivere un’altra vita in riva all’oceano.
Fu così che, un po alla volta, le mie passeggiate preserali si allungarono verso i container di Rosy e Atila. Una lattina di birra fresca, ogni tanto un panino, tante chiacchierate fra amici, fino a quando non  calava la sera. Non so se avete mai fatto l’esperienza del passaggio fra la notte ed il giorno nelle zone equatoriali la transizione è quasi repentina. Alle 17,50 c’è il tramonto, alle 18,10 era già buio. E lì iniziava il bello della giornata.
Avevo portato una mia poltroncina perché quei momenti dovevano essere vissuti appieno. Il cielo notturno ha una luce completamente diversa dalla nostra; le stelle, non imbastardite  dall’illuminazione di milioni di lampadine, sembrava quasi potessero essere toccate o staccate dal firmamento. Il vento dell’oceano portava con se il profumo del mare, u rusciu do mari. E la pace mi avvolgeva […] 

 

To be continued …

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